Il diorama di Dio

io playmobil

Non ho mai compreso il sarcasmo o il biasimo che si sono attirati addosso, nel corso degli anni, i plastici delle varie “scena criminis” proposti nella sua trasmissione da Bruno Vespa. Ho sempre trovato quei diorama, accuratissimi, la parte più riuscita e convincente dell’intera trasmissione. Forse l’unica. Tempo fa ne avevano discusso (dopo l’ultimo e controverso plastico in scena sul “caso Brenda”), con la consueta competenza semiologica, a TV Talk (trasmissione che seguo da sempre e che consiglio a tutti). I plastici di Vespa, mi pare dicesse il prof. Simonelli, sono una “messa in scena” al quadrato, essendo già la rappresentazione televisiva di per sé una sorta di “diorama” vivente della realtà, un duplicato verosimile e realistico del “reale”. Immagino che tra qualche anno tutti i plastici delle trasmissioni di Vespa potrebbero dare pure luogo ad una piccola attrazione turistica, una “Italia in miniatura degli orrori”, da visitare osservandola dall’alto. I diorama hanno per me, evidentemente, un grande fascino filosofico. La volontà di riprodurre, in scala ridotta, porzioni e rappresentazioni della realtà evoca, inconsciamente, la percezione della finitudine umana, noi “creature” in scala (a sua immagine?) rispetto a un “Creatore”. L’idea del “Grande Architetto” non è, in fondo, quella di una ferromodellista della domenica che, per passare il tempo e sconfiggere la noia, squaderna appunto il “Creato”? Tutti i diorama alludono, a mio parere, a questa dimensione incolmabile: facciamo modellini per esorcizzare la paura di essere, noi stessi, modellini, giocattoli, figurine. In un tripudio di presepi, ferrovie, bamboline, case di bambole, costruzioni lego et similia, riproduciamo la vertigine di creare e, soprattutto, controllare Mondi. Governiamo l’oscurità del Caos ricalibrando in scala, ridotta, il Reale. E la letteratura come diorama? Un’altra volta, prego. Torniamo ai plastici.

Vorrei pure ricordare, in più, che tutta la “teoria raffigurativa del linguaggio” del primo Wittgenstein gli venne in mente forse proprio osservando il plastico di un incidente automobilistico, plasticamente esposto in un tribunale (e io credo che Bruno Vespa sia, più o meno consapevolmente,  un sostenitore di quella pur molto problematica posizione teorica). Il diorama è una raffigurazione di stati di cose, più o meno esistenti, del mondo e nel mondo. Così, tra le varie richieste a Babbo Natale, quest’anno avevo segnalato per me una confezione di Playmobil raffigurante un piccolo me-stesso-travet, alla scrivania di un ufficio. Immaginavo, infatti, di posizionare il me stesso in scala in un angolo del tavolo d’ufficio e di sorvegliarmi dall’alto, auto-avatar, feticcio tascabile di un culto privato ma anti-narcisistico e votato, semmai, ad una forma di estrema e tragica consapevolezza (l’alienazione del videoterminalista, l’impiegato spersonalizzato, il gioco di ruolo dell’essere in ruolo et cetera….). Il diorama di sé consente un’ulteriore forma dello “spiarsi vivere” e rappresenta la soglia, oltrepassata ormai per me, tra “normalità” e disagio mentale. Stamani mi sono seduto alla scrivania e mi sono posizionato sulla scrivania. Prima di lasciare l’ufficio, poi, mi sono chiuso a chiave in un cassettino. Avevo paura che qualcuno mi portasse via, per sempre.

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