Scarnificata

A volte leggo l’espressione “lingua scarnificata”, tipo in una recensione, o in una presentazione. E non so bene come immaginarmela, questa lingua scarnificata. Di solito dopo ci scrivono pure “essenziale”, un racconto, un romanzo, delle poesie, tutto scritto con una lingua “scarnificata ed essenziale”. Per alcuni anni, poi ho smesso, mi sono posto il problema del linguaggio essenziale, e organizzavo pure un concorso estivo tramite blog che si chiamava “Scrivere l’essenziale” (qui). Ora è un tema che non m’interessa più tanto. Perché, nel frattempo, siamo entrati nell’era dell’inessenziale, delle scritture inessenziali. E se c’è un linguaggio che m’interessa coltivare è quello “carnificato”, per così dire, cresciuto intorno a questo inessenziale. La lingua scarnificata non la so immaginare e, anzi, il termine mi riporta più alle pratiche di modificazione del corpo che alle analisi stilistiche. 

Per me c’è una cosa strana. Ho un paio di libri potenziali pronti, per così dire: uno di poesie che ormai sta bene in piedi da solo e che è piaciuto a chi l’ha letto; e uno di raccontini,  ma non so se verranno mai pubblicati da qualcuno. Al contrario, scrivendo le parole del monologo per voce e ottoni  ”Tacabanda”, sapevo già che sarebbero diventate pubbliche, aeree, sonore, tra un paio di mesi, nel debutto in teatro a Montalcino. Anzi, le scrivevo perché dovevano diventare voce, gesto, scena. E questo per me è inedito e strano e mi chiedo se questo abbia determinato qualche effetto interno alla lingua “carnificata” che vorrei usare.  Sono tipologie di scrittura differente o no?

Inoltre, ho capito che l’esaurimento di una casistica non è, generalmente, un metodo produttivo di scrittura; mentre il tentativo di esaurimento della TUA casistica può essere un buon metodo produttivo di scrittura. Almeno in poesia.

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