A blocchi, a scaglie, ad iceberg “in sessantaquattresimo”, la pista viene rimossa. A colpi di martello e scosse di vanga, lo strato dell’era glaciale (del gusto) si spacca, deriva dei continenti, bianca pangea glassata che ha fatto da palco, per qualche settimana, a tanti pattinatori più o meno improvvisati. La fiera di piccoli e grandi contusi. I blocchi mi ricordano un tempo che ho vissuto solo nella dimensione del racconto: la vendita del ghiaccio per strada in un era pre-industriale. Mi chiedo dove trasporteranno tutto questo bottino solubile, l’acqua in lingotti. Verranno buttati? E dove? Trasportati al nord, al Polo, per rattoppare qualche banchisa fallata dal global worming? Metri e metri quadri di ghiaccio, rimossi a mano, pazientemente. Qualche anziano, intanto, si affaccia sul bordo della pista e sovrintende, per la mattinata intera, alle operazioni di scioglimento e rimozione: opera d’arte performativa, installazione involontaria, perfetta, del trascorrere dell’ere geologiche sulla crosta terrestre.