L’altra notte tornavo in macchina da Castiglion Fiorentino, dopo una bella serata per una replica di Tacabanda. Sono circa due ore di macchina da Pisa, e non so bene perché si chiami “Fiorentino” dato che sta in provincia di Arezzo ma, comunque, dicevo, tornavo a Pisa guidando e mentre guidavo, in autostrada, di notte, ho scritto mentalmente una bella poesia da mettere tra quelle nuove, dedicate alla macchina. Arrivato a casa, prima di dormire, me la sono appuntata sul telefono. Cioè, me la sono spedita via mail, che è il mio modo di appuntarmi le cose: mi mando delle email. E, insomma, mi sembrava proprio bella, una di quelle poesie che sono, al tempo stesso, leggere e profonde, che dicono qualcosa di molto comune, visibile, e qualcosa di meno comune, meno visibile. Ho pure mandato un messaggio a Giulia, di buonanotte, erano quasi le tre, dicendole che ero a casa e che avevo pure scritto una bella poesia.
Poi, ieri, ci ripensavo, e mi è venuto in mente un famoso palindromo latino (questo: “In girum imus nocte et consumimur igni”, qui trovate la traduzione) e già la poesia mi sembrava molto meno significativa, meno precisa, meno leggera. Allora ho pensato: metto la frase latina in epigrafe! Che è un po’ come quando fai dei lavori di ristrutturazione, e appesantisci troppo il solaio tanto da far crollare la casa sotto. Ieri sera, quando Giulia è arrivata a casa, molto gentilmente mi chiede: “Allora, quella poesia bellissima che hai scritto stanotte, che volevi farmi leggere?”, “No, non è ancora pronta, ci sto lavorando sopra”, le ho risposto. Stamani sono ancora qui che frugo tra le macerie per vedere cosa avessi scritto.