L’esproprio

Cerco alcune immagini nel Super8 dell’inconscio, col rischio che qualche fotogramma salti oppure che qualcun altro vada in fiamme. Ricerco la mia personale Rosebud nell’episodio che qui vi racconto. Suonano alla porta, ho 3 o forse 4 anni. Forse 2 anni! Mia madre va ad aprire alla porta. Abbiamo un ingresso ampio, un largo corridoio. La seguo. Ci sono due persone sulla soglia, una donna e una bambina. Sono vestite strane. Vabbè, anni Settanta frichettoni, figli dei fiori? No. Non le conosco. Cosa vogliono? Chi sono? Sono zingare. Anzi, zinghEre. Chiedono elemosina nelle case. Mia madre dà loro qualcosa, forse soldi, forse cibo. Poi vedo che si dirige tra i miei giocattoli. Rovista. Sceglie. Estrae un peluche. Un cane? Un orsetto? Il fotogramma salta, quello dopo brucia. L’inconscio cerca di lenire il dolore della bruciatura. Porge il peluche alla zingarella, qui il vezzeggiativo mi sia consentito. Io muto. Pietrificato duenne, treenne, letteralmente derubato. “Nei hai tanti di giocattoli, cosa te ne fai?” È la domanda assurda che caratterizzerà per molti anni a venire il rapporto tra mia madre e i miei giocattoli. Cosa me ne faccio!? Sono il mio CAPITALE, Das Kapital. Sono MIEI. Ogni bambino è un piccolo capitalista in nuce, per questo noi comunisti li mangiavamo i bambini, per il capitalismo inemendabile insito nel concetto di “è un Mio giocattolo”. Anni di espropri proletari quelli, certamente, ma io lo subisco in casa mia e per opera di mia madre per giunta. Una scena primaria esemplare. Nessuna psicoterapia riuscirà mai a sanare quell’esproprio improvviso, inatteso, ferale, cocente. La porta si richiude, l’elemosina solidale è compiuta, io ho un peluche in meno. Un fotogramma salta, uno brucia.

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