Lettura di poesia ad alta voce

È tanto che non leggo ad alta voce,
L’avete sentito? Dico, il verso
“È tanto che non leggo ad alta voce”,
che se lo leggi a voce alta allora senti
l’endecasillabo entrarti nell’orecchio
e fare come una giravolta, un ricciolo,
non è una linea dritta,
l’endecasillabo, è un suono
avvoltolato undici volte in volo.
L’avete sentito? No, no quest’altro
endecasillabo, “avvoltolato undici volte in volo”,
volevo dire l’allitterazione,
che se la scrivi e basta e non la leggi
non serve a niente metterci tutte quelle
volte “vol”, velario di velari.

Ma allora, quando scrivi, cerchi
gli effetti sperando solo l’occasione
di leggerli a chi ti ascolta? E il senso,
l’intenzione, il fatto, di cosa vai significando?
Certo, un minimo di polpa garantita
dovrai pur metterlo nei versi
come la certificazione di percentuale in frutta
dentro annacquatissime bevande tropicali.
L’avete notato? No, non l’endecasillabo
di “un minimo di polpa garantita”,
ma la similitudine alimentare, da supermercato,
che è messa lì proprio perché intercetti
un’esperienza minima e ben condivisa
così chi ascolta, voi, tira un po’ il fiato
dal cercare di capire cosa stia dicendo
questa poesia, ammesso sempre che lo sia.

Se sono presenti tra voi degli umanisti, poi,
c’è ne sono sempre in numero ancora sufficiente
alle letture di poesia, sapranno
certamente l’aneddoto agostiniano
che segna un’occorrenza in data certa
della prassi di leggere le pagine in silenzio,
il suo stupore – Confessioni VI – di fronte
al Santo Ambrogio grande lettore muto. Dice Agostino:
“Lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente”

Ora, non vedendo – lo dico per chi
qui mi ascolta e non per gli endofasici in lettura,
se tacito abbia t minuscola o maiuscola
chiarisco che è minuscola perché non conosco
il modo per renderla col tono della voce
in modo da evitare questa disambiguazione.

Che la poesia sia canto, quindi voce,
appare cosa ovvia e nota, ma degno di nota,
mi pare, ancora il fatto che la voce stia al verso
come la prova di carico al ponte prima d’essere inaugurato.

Caterve d’autoarticolati al massimo del peso,
ben allineati, tutti sul ponte: se la campata tiene
il calcolo era corretto, giusto il progetto, salvo l’ingegnere
e l’architetto; se crolla…qualcosa nel conto
non ha funzionato.

Così è per i versi, e spesso ho usato questa immagine
(e mi scuso per l’uso ripetuto di questi “questo”, dimostrativi
che mimano presenze sempre assenti), dicevo,
immagine che avevo ripescata prima da Wittgenstein
e poi in Mandel’štam, fino a che non vidi
una foto della prova di carico del nuovo
ponte Elisabeth, a Budapest, del 1964 di fotografo sconosciuto:
e lì, file di tram, al centro, e autobus a perdita d’occhio
a provare la tenuta dell’arcata. E la voce?

Sentire leggere i poeti i propri versi ad alta voce
aggiunge o toglie smalto alla luce della pagina?
Ci sono letture molto colloquiali, altre, invece,
ricordo una poetessa di gran fama,
votate a un “misticismo low-cost”, dove il sussurro
rende tutto trascendente e il trascendente un po’ “per tutti”.

Mi sono perso, cosa dicevamo? Ancora pazientate d’ascoltarmi?
Li avete sentiti? Due endecasillabi, al prezzo di uno.
No, non sono adatto, a proseguire questa messa in scena,
il testo! Il testo ormai si spancia, si slabbra sulla pagina, lo dico
per chi ascolta e non per gli endofasici, sia inteso,
non tiene, crolla, si espande verso il centro in mare aperto, dilaga,
come se la voce, un filo elastico e per di più amplificato,
avesse volontà sua propria e il verso si facesse ormai pretesto
del suono, dell’esibizione, del tendere a un finale gradimento
che cerca applausi, consenso. Allora sto zitto, basta, cerco anzi un segno,
per smettere questa lettura di poesia ad alta voce, qualsiasi cosa

Qualcuno, per carità, tossisca!

E così smetto.

 

(tratta da “Dire il colore esatto”,  raccolta in pubblicazione – primavera 2019. Nell’immagine: prova di carico del ponte Elisabeth, Budapest, 1964, di fotografo sconosciuto, ritrovata grazie a Lou Witt)

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