Cronaca di “Cronaca senza storia”

Venerdì 18 marzo, a Pistoia, alla Libreria Les Bouquinistes degli amici Elena e Sergio Salabelle, abbiamo presentato, Giuseppe Grattacaso e io, la raccolta di poesie di Matteo MarchesiniCronaca senza storia. (Poesie 1999-2015)”, Elliot, 2016. Trascrivo qui alcuni appunti (davvero alquanto confusi ed emotivi e ben lontani dall’essere una “recensione” esaustiva della ricchezza del libro) delle cose che ho detto in quell’occasione sul bel libro di Matteo rimandando all’acuta prefazione di Paolo Maccari,  presente nel volume, per chi volesse un inquadramento critico vero e proprio sul lavoro in poesia di Marchesini.

Una lettura superficiale della multiforme produzione di Marchesini, che chiamerò per cognome sia per eccessiva prossimità onomastica  – in una epoca in cui il nostro nome si è, per giunta, inflazionato di pericolose antonomasie politiche – sia per sintonia di nevrosi, suggerirebbe di cercare in questo volume di poesie il momento in cui poter cogliere finalmente l’attrezzatissimo e temuto critico-polemista alle prese coi dolori prosastici del vivere: traumi, sconfitte, amori finiti, insicurezze, ossessioni. Come se, in una modalità di offerta di sé, il critico diventasse un San Sebastiano offerto alle frecce del vivere, e a quelle degli occhi curiosi del lettore. Niente di più sbagliato. Marchesini polemista, animatore culturale, critico letterario è qui ancora più inesorabile con sé e con il proprio mondo, costruendo un testo inattaccabile per cesellatura lessicale e ritmica, di quanto non lo sia nel terreno quotidiano dell’esercizio della critica.

Nella poesia Lettera a Nader, che fa parte della seconda sezione del volume e che ne è eponima, “Cronaca senza storia”, troviamo subito il passo della confessione ma nella forma, per me, del rebus da decifrare, in una sorta di bilancio esistenziale di quanto la scrittura sia spesso, per molti di noi, condanna e riparo insieme. Si padroneggiano i nomi delle cose ma non più il saper vivere dentro le leggi del mondo. In un’infanzia interminabile, in un’adolescenza che non finisce mai e sfinisce: “Adesso sono il figlio che non ho”. Queste figure di figli mancanti e mancati, di bambini feroci che ci guardano nel nostro infantilismo, sono ricorrenti in tutto il volume.

A mio modo di vedere tutta la raccolta di Marchesini è attraversata da una profonda riflessione sul Tempo, sulle discrasie tra le varie età che l’io del poeta riconosce in se stesso a contatto e attrito col mondo delle relazioni (il lavoro, gli amori, la famiglia, le radici). La fortissima polarità vecchiaia/gioventù attraversa tutto il libro (io sospetto che Marchesini, che porta la terribile colpa del non avere quarant’anni ancora per diverso, troppo tempo, cosa che gli attira le invidie dovute a ogni enfant prodige delle lettere che tarda a crescere, sospetto, dicevo, che sia nato nel ’79 dell’Ottocento e che sia, per questo, vecchissimo). Marchesini, come nell’immagine del centenario/neonato di Odissea nello Spazio, è consapevole di questa propria vecchiaia interna che si specchia continuamente con l’incapacità di crescere, e con la mancanza – “generazionale”, perdonerà mai questa semplificazione?- di “adulti” intorno. Nel Dittico rivelatore che sta al centro del libro, il bambino e il vecchio si confrontano con furore ma “A medicare qui il loro furore / nessun adulto intorno”.

Marchesini si confessa sempre temporalmente fuori fuoco rispetto all’età anagrafica. La poesia Monologhetto rappresenta, per me, un vero e proprio trattato sul tempo, ricco di “qui, “ora” “sempre”, “domani” e, soprattuto, di parole pervase dalla paura della Durata. (“È un’ordalia ogni istante,/ della durata non so farmi immagini” dice in Parla la scimmia). Quanto dureranno le nostre parole? Quanto la nostra capacità di comprenderle? Come non precipitare nel tempo frammentato dell’effimero, di ciò che dura un giorno? (Non ho pazienza, tremo / pensando che qui e ora non ho steso / l’articolo del giorno / e a quello sono appeso / sempre ogni volta come ad un battesimo: / per me non è più vero /l’ieri, e il domani non ha immagine).

La polarità gioventù/vecchiaia come chiave interpretativa mi è suggerita dallo stesso Marchesini, che pone in esergo alla sezione in questione due versi di Saba (Io, se mi vedo è solo / morto. O ragazzo di quindici anni) ai quali associo liberamente altri versi di Saba, finali rispetto alla sua vita e alla sua produzione: “Parlavo vivo a un popolo di morti. / Morto alloro rifiuto e chiedo oblio. (Epigrafe). Ora, anche Marchesini parla a un popolo di morti, diversi da quelli cui fa riferimento Saba, ed è il terreno del suo approfondito lavoro di critico, il “popolo” di poeti morti che sono la materia della sua scrittura, ma anche del suo ritirarsi sulla pagina, del vivere di scrittura e dentro la scrittura. Qui trovo un Marchesini “kafkiano”, nel senso che Kafka è quello che meglio di altri all’avvio del Novecento ha saputo esprimere la drammatica equazione “o si scrive o si vive”, camminando sempre sul baratro della scissione mentale tra un tempo interiore e un tempo esteriore, sociale, socievole, mondano. Qui Marchesini confessa che “il solo accordo/ rimasto nel mio mondo è sulla pagina (I dintorni). Tanta lucida spietatezza di sguardo su di sé, “io la vita l’ho solo orecchiata” (Parla la scimmia), produce una poesia che emoziona, che ci interpella e fa reagire.

Salutandolo, alla stazione, non ho saputo dirgli quanto, riconoscendole, ci affratellino le sue nevrosi, ben oltre il nome e le barbe. E quanto mi sia piaciuto il suo libro. Alla prossima occasione.

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