Sotto a un cassonetto vicino casa, fotografo una scatola di Tavor. Qualche vicino insonne, penso. Del Tavor mi interessano, più degli effetti, lo slittamento antonomastico: un ansiolitico diviene, in un certo periodo, un medicinale diffuso (molto diffuso? troppo diffuso?) e segna il suo tempo come antonomasia di “ansiolitico”, o di “psicofarmaco”. Ci sono medicinali che seguono periodi di “moda” e di scomparsa, soppiantati da nuovi farmaci, da nuove mode.
Il Maalox, il Viagra, il Tavor, appaiono come i nomi di divinità potenti, miracolose, a volte dispotiche (le dipendenze), a volte benevole. Se non evocatori - già nel suono – d’una magia salvifica, come supereroi: Prozac, su tutti. I nomi di questi semidei portatili (inutile ricordarvi che “phàrmakon” vale anche per “veleno”…) le cui edicole hanno la forma di pratici blister, risuonano allora come emblematici di una società intera: si curano solo i sintomi, non si eliminano mai le cause.