Roma


Ieri passeggiavamo per Roma, Giulia ed io, verso sera, e faceva caldo. Scendevamo lentamente lungo via Giovanni Lanza, commentando gli attici che ci piacevano di più. Camminando siamo arrivati dalle parti di San Pietro in Vincoli, e così siamo entrati a vedere come stava Mosè. Quando cammino per Roma mi torna sempre in mente questo brano di Manganelli, dove parla degli obelischi come soprammobili e dell’umidore mediterraneo, allora lo trascrivo qui:

Una volta tolta di mezzo la ciancia eroicomica dei Ministeri, del Vittoriano, di via della Conciliazione, Roma veniva fuori da quella pelle posticcia, tra fascista e liceale, con la sua pinguedine grandiosa, la sua pessima digestione, le arcaiche flatulenze, la cellulite dei secoli, la pietà untuosa di splendori inutili e casuali, lo sfoggio sfacciato – quegli obelischi per soprammobili, tutti autentici, vero Ramsete, ma con un’aria di Porta Portese – la sovrabbondanza dell’erede di professione. A suo modo, una capitale perfetta: il cibo pesante, l’estate interminabile, notti chiassose, tutta la storia dell’architettura sottomano, come in un album a rilievo; il Colosseo per i pagani, l’Aventino per i cristiani emotivi, tutto il resto per il cristiani di ruolo; in ogni caso un tocco, di cerimonioso, di barocco; niente austerità medioevali, alla Sant’Ambrogio. Un luogo chic, pieno di preti e di ambasciatori, di stemmi e di capitelli. Fa un bell’effetto vivere in una città fatta in larga misura di rovine; un Impero romano in prima visione, a cercarlo bene anche qualche frammento di Repubblica, schegge da cineteca. Rovine per niente asettiche, ma piene di gatti, fitte di erbe, un amichevole tanfo di selvatico e di orina. Rovine disordinate come un museo del derelitto: facciate medievali impastate di cocci augustei, giri l’angolo di un arco costantiniano e ti trovi di fronte una chiesa dell’anno mille che si appoggia, da ubriaca, o forse chiacchiera a vanvera, con un arco di Alessandro Severo, terzo secolo. Solo a Roma una chiesa può essere tanto frivola, o aggraziata, o distratta, da prendersi sottobraccio un arco di malaffare e ufficialmente pagano; o addirittura prendere in subaffitto un tempio il cui dio si è ritirato in campagna, per via del clima. Certo, il clima è pesante; un umidore mediterraneo, un sudore ignobile, notti da balconi spalancati, passeggiate in pigiama; poi, una tramontana a mano libera, iraconda e sprezzante.

(Giorgio Manganelli, Roma e Milano, in Lunario dell’orfano sannita, Adelphi 1991, pp. 125-126)

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