Il teatrino


Sopravvive solo in qualche super 8 familiare il fotogramma di me che gioco col teatrino costruito da mio padre. Era una festa di compleanno, forse, e avevo lungamente richiesto un teatro di compensato, rosso laccato, con le marionette di seta e plastica, i fondali in cartone intercambiabili per le varie esigenze sceniche, un teatrino certamente visto nella vetrina del giocattolaio in centro. Erano i primi anni Settanta, e la domenica le macchine non circolavano, per risparmiar benzina. Mio padre era ed è un homo faber, quel tipo di uomo che non sono mai riuscito a diventare o che, forse, non ho mai voluto diventare. Il teatrino che lui mi costruì, con le tende di velluto nero, e lo spazio per muovere piccole figurine in legno dietro, era incomparabilmente più bello di quello industriale in vendita nel negozio ma, allora, non lo vedevo o forse non avevo le categorie estetiche per comprenderlo. All’età di quattro, cinque anni, certe finezze della manualità artigiana sfuggono e si richiede, tutta e subito, la levigatezza dei balocchi illuminati dentro le vetrine. Soprattutto in tempo di austerity.

Nel super 8 col teatrino mi si vede, mi sembra di ricordare, e il ricordo stesso del filmino in super 8 è stato girato, nella mia memoria, in super 8 e quindi molti dettagli appaiono un po’ sbiaditi e ci sono frammenti di filo e salti, giunture, tra un fotogramma e l’altro, dicevo mi si vede seduto dietro al teatrino costruito da mio padre: indosso dei guanti di pelle nera per muovere le marionette di legno, anche quelle costruite da lui, a mimetizzare così le mie manine, bianche, tra quinte e proscenio. Davanti a me un piccolo pubblico di bambini, scalpitanti, vorrebbero sostituirmi nell’esibizione. Ma io sono, contemporaneamente, proprietario dello stabile, capocomico, regista, direttore di scena e non permetto a nessuno di interagire col mio teatro: che facciano il pubblico per la storia che sto mimando, se vogliono.

Non so recuperare a memoria le dimensioni esatte del Teatro Stabile fabbricato da mio padre, né la scheda tecnica della sua dotazione, palco, luci, quinte, numero di posti. Ricordo la serietà totale con la quale mi avvicinavo a quel gioco e a quelle messe in scena, storie di soldati, di successioni al trono, di scambi di persona. Superata la frustrazione iniziale per avere ricevuto in dono il prodotto artigianale di mio padre, che già aveva prodotto altri manufatti in legno, ad esempio un fortino adatto agli scontri tra indiani e soldatini americani, iniziai ad affezionarmi a quel teatro. Il sentimento che mi legava a quell’oggetto era, ed è tutt’ora, ambivalente: da un lato mi attraeva come fosse un consanguineo, figlio di un papà-geppetto che genera e crea, produce, quindi mio fratello pur nel suo essere “cosa”, oggetto; dall’altra rifiutavo l’autarchia del gesto, l’anticonsumismo esplicito che mi negava il balocco della vetrina. La parte più bella di quel teatrino era costituita dal sipario: due tende di velluto nero che mi parevano l’elemento più realistico dell’intera costruzione, cioè il velluto aveva qualcosa del vero teatro, dei veri sipari, e questo mi sembrava mettesse direttamente in contatto la miniatura con gli originali.

Non ricordo di aver frequentato in modo abitudinario molti teatri da piccolo, eppure la fascinazione del teatrino, e del teatro “vero”, erano molto forti. L’idea di messa in scena che sentivo, avevo quattro anni, aveva la forma del “raccontare una storia” davanti a qualcuno più che del “recitare”. Il teatrino costruito da mio padre era una specie di porta magica, per quanto conflittuale, tra me e un mio pubblico potenziale, seduto ad ascoltare la storia che avevo da raccontare. Un’intercapedine, dove esiste un “dietro” – la scena per le marionette – è un davanti, la cameretta o il terrazzo di casa dove ospitare il pubblico. Ed era anche il protagonista di un diorama “filosofico”, perché a volte i bambini, maneggiando marionette, sono portati poi a immaginare, o a depositare nell’inconscio, una qualche entità manipolatrice che, nel gran teatro del Mondo, ci sposta, ci muove, ci mette in scena. In quale trasloco, in quale cantina sia poi finito quel teatro non so dirlo. Quanto abbiamo retto le quinte, le tende di velluto nero, i colori passati sulle strutture in legno non lo so più. Forse dovrei chiedere a mio padre cosa ricorda lui di quel dono, di come fabbricò quel teatrino, e se ne concordammo il progetto o se me ne lamentai con lui, come sempre, in quel confronto inesauribile tra l’homo faber e quello ludens che ci contrappone e, contrapponendoci, ci unisce ancora.

(Pisa, Gennaio 2013)

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