Perché le bestie non parlano idioma

copertina di Animanti Untitled EditoreInizio a leggerlo, e so già qualcosa. Perché conosco l’editora, perché conversiamo ogni tanto, perché leggo le cose che scrive da anni. Poi so qualcosa dell’autore, o degli autori, insomma di queste voci che hanno scritto Animanti, che prende il titolo dal pre-testo di Leon Battista Alberti (un ampio frammento estratto dal Theogenius che apre il libro e nel quale l’Alberti, citando Plauto e anticipando Hobbes, esprime il disagio dell‘homo homini lupus). Allora inizio a leggerlo random, non sequenziale, come si leggono le enciclopedie, gli alfabeti, gli elenchi, i bestiari, i bestiari fantastici. Ma questo non è un bestiario fantastico, non è il manuale di zoologia immaginaria di Borges. Qui le bestie dicono degli uomini, e gli uomini dicono delle bestie. Gli uomini hanno una malattia che le bestie non hanno: la parola. Io penso che questi (questo, questa, queste…) che hanno scritto Animanti siano più malati di parola degli altri uomini, perché scrivono. E chi scrive è malato di parola due volte. Allora le bestie, penso, un po’ li salvano da questa malattia. Penso queste cose e intanto arrivo a leggere una specie di sentenza: perché le bestie non parlano idioma. Decido, testardamente, per partito preso, che faccio di quella frase la mia chiave interpretativa del libro.

Così finisce che ripenso pure al mio Ludovico, tanto amato e odiato: “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo.” (Ricerche Filosofiche, parte seconda). Che poi è l’ultima fase del suo pensiero, lebensform, giochi linguistici e forme di vita. Questi malati di parola, invece, capiscono/riconoscono il leone proprio perché non parla. Gli animanti non parlano, ma si innestano nei diari, nei ricordi, negli spazi vuoti che la lingua umana lascia loro. Questi sono diari (bellissime le pagine del coniglio insaguinato nella notte pisana, strade che conosco, atmosfere di sera estive di universitari che ho visto; folgoranti le formiche rese insonni per sillogismo falso…) contaminati dalle bestie, che invece non tengono diari ma si innestano nelle nostre vite, nei nostri ricordi, nelle paure profonde (e gli animali in Freud?). Le bestie stanno dentro all’inconscio prima che nei libri, prima che nel mondo. Prima stanno nel mito, poi diventano quelli familiari a due per due dell’arca di Noè. Quindi, ci sono questi malati di parola al quadrato che scrivono e intrecciano, conversando, i loro diari, e questi diari sono contagiati dalla purezza di chi non ha idioma, gli animanti. E scrivono in una lingua spuria, mescolando codice alto (“Ed io che ho tante parole magnanime in canna, tanta lingua al mio servizio!“) e basso, perché sono frammenti di epistolari in tempo reale (chat, mail, telefono, post) e ritagli di letteratura. Va da sé che la lettura di un testo come Animanti sia più agevole per chi conosce dall’interno come si formano queste conversazioni, questi rilanci, questi contagi. Le bestie ci contagiano coi loro virus, e noi abbiamo il virus più potente e contagioso di tutti, il linguaggio. Dicevo lebensform, allora Animanti è una raccolta, divisa in capitoletti titolati, di “forme di vita”. Queste forme di vita sono le interazioni tra umano e animale: interazioni biografiche (i cani, i cani domestici, insetti, animali fortuiti, incroci di strada, tutte le varie bestie che abitano le biografie degli autori) e interazioni simboliche (gli animali che popolano l’inconscio, che si manifestano nei sogni, nelle poesie, nella letteratura, nel Mito…)

Altro aspetto è la funzione di specchio, di riconoscimento: gli animali ci guardano (“non guardare il coniglio! perché anche lui ti guarda“) e noi ci specchiamo in loro, in loro riconosciamo la nostra bestialità (perduta o meno che sia) così come i nostri caratteri segreti (essere una lumaca domestica, o la “gameness dei cani da tana”). Animanti è molto più vicino a Kafka e alle sue creature inquiete che non alla fantasia di Borges. Un bestiario alla rovescia che, attraverso le voci ordinate di decine e decine di animali, ci racconta qualcosa di chi l’ha scritto. E chi l’ha scritto è riuscito a fare un po’ di  letteratura. Odierna.

Certe farfalle vivono solo un’ora, e pure hanno il tempo di cacarsi il cazzo.

(
Animanti, Untitled Editori, 2009,  p. 36)

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