La foto primaria

La tesi è che esista per ognuno una foto, scattata nell’infanzia, che sia in grado di rivelare i tratti completi, psicologici, esistenziali, del “carattere” della persona raffigurata in relazione alla sua vita futura, ad ogni sua possibile vita futura. Una sorta di “DNA per immagine” che traduca e tradisca la natura più intima della persona che quel bambino, quella bambina, raffigurato/a (in un giorno dato e in una circostanza casuale) diventeranno. Ovviamente questa è una mitologia, e come tutte le mitologie è molto suggestiva. Ma è anche un genere molto consolidato di indagine semiologica: analizzare, “leggere” una fotografia, e in particolar modo un ritratto (a partire da “La camera chiara” di Roland Barthes su tutti, nel quale si trova appunto l’analisi paradigmatica di una foto d’infanzia della madre di Barthes stesso. Per una ricostruzione delle riflessioni teoriche recenti sulla fotografia vedi “Le idee della fotografia” di Claudio Marra). Qui io penso anche ad una famosa foto di Kafka da bambino (vedi Wagenbach), e poi anche a una di Nanni Moretti (mi pare con un’espressione tristissima, in un vestito da Carnevale…ma non riesco a ricordare in quale film, forse Palombella Rossa o uno successivo…). Queste riflessioni mi sono state suggerite ieri da un breve scambio di battute con Anna, a partire dall’analisi di una foto di lei bambina in analogia/contrasto con una sua immagine recente.

Quando osserviamo una foto d’infanzia di una persona che conosciamo il primo meccanismo spontaneo di analisi è la ricerca dei punti di somiglianza, proporzioni e caratteri mentenuti nel tempo e differenze sopraggiunte. Poi passiamo ad analizzare lo sguardo, gli occhi. Infine ci concentriamo sull’espressione e la circostanza che ha generato quell’espressione. In modo involontario proietteremo gli elementi di cui siamo a conoscenza sulla vita della persona ritratta nella foto d’infanzia che la ritrae. Eppure, vorrei coltivare ugualmente la mitologia che il ritratto d’infanzia sia portatore di una radice potenziale, cioé che potenzialmente contenga  – in nuce – tutte le linee di sviluppo della personalità del raffigurato. Questo tema diventa interessante se piegato all’autonalisi: quanto siamo capaci di riconoscere di noi stessi osservando una nostra foto d’infanzia? O meglio LA nostra foto d’infanzia, postulando appunto l’esistenza di una e una sola foto che, in modo del tutto magico e irrazionale ed elevandosi dalla collezione di album fotografici familiari, sia identificabile come  la “Foto Primaria”. L’esplosione della “autorappresentazione fotografica di se stessi” consentita dalla fotografia digitale e dai social network (sintetizzata nell’espressione giornalistica “Generazione autoscatto”) manifesta quanto oggi affidiamo la ricomposizione delle nostre identità – profonde – alla superficie di un’infinita e continua “messa in posa” di volti e corpi personali (“Il corpo del capo” di Belpoliti, cui accennavo tempo fa, è acutissimo non solo o non tanto per l’analisi che fa dell’iconografia autoprodotta di/da Berlusconi, ma per la luce che getta sulla società in cui può darsi un fenomeno come quello di Berlusconi). In questo “album permanente” che ci accompagna possono comparire ogni tanto, penso ai profili di Facebook, anche foto d’infanzia. Reperti archeologici di un epoca in cui il ritratto fotografico aveva un senso differente rispetto al caleidoscopio identitario attuale, queste foto consentono ancora un utile esercizio di analisi di sé, restrospettivo e introspettivo, alla ricerca della “Foto Primaria” rivelatrice dei nostri destini possibili, realizzati e irrealizzati.

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